Ho avuto occasione di presentare il libro di Yahya Sinwar, Le spine e il garofano presso la facoltà di Lettere della Sapienza a Roma» ha annunciato il 5 maggio Davide Piccardo, direttore editoriale del giornale islamico online La Luce. Sinwar è il capo terrorista di Hamas, ucciso dagli israeliani a Gaza, che ha scatenato l’attacco stragista del 7 ottobre. Piccardo lo presenta come un illuminato scrittore: «Il libro di Yahya Sinwar è un testo fondamentale per capire la questione palestinese e la sua resistenza ed è oggi più attuale che mai». E non a caso ringrazia «il prof Marco Di Branco per il coraggio dimostrato nell’invitarmi e nel dare spazio a un libro così censurato e demonizzato». Docente associato alla Sapienza, che si era opposto a far parlare papa Ratzinger, ma presenta un terrorista come un novello Tolstoj.
Non solo Harvard, sotto tiro della Casa Bianca per le derive antisemite, ma anche negli atenei italiani non mancano violenze e prevaricazioni pro Pal.
E suona l’allarme pure per l’aumento delle iscrizioni di cinesi e iraniani, i più numerosi fra gli studenti extracomunitari. «Il fenomeno dell’“integrazione antagonista” riguarda l’islam politico che si insinua nelle società occidentali. Non lo fa abbracciando i valori liberaldemocratici, ma sfruttando le fratture interne all’Occidente rappresentate da movimenti postcoloniali, radicali e woke, arrivando persino all’anarco-islamismo», spiega Ciro Sbailò, ordinario di Diritto alla Unint, Università degli studi internazionali di Roma. «Tale clima di pressione ideologica colpisce anche il mondo accademico. Questo fenomeno, già evidente negli Stati Uniti, sta ora radicandosi in Europa e in Italia», aggiunge il docente, che dirige anche il centro Geodi (Geopolitica e diritto) dell’Università internazionale.
Nel nostro Paese, come nelle grandi università americane, si rischiano presenze imbarazzanti. All’ateneo di Genova uno sciita libanese ha iniziato un dottorato di ricerca e fino al 2024 aveva un contratto di assistente. Attenzionato dall’Aisi, l’intelligence interna, sarebbe uno dei figli di Hussein Ahmad Karaki, indicato dai servizi argentini come «il capo delle operazioni militari di Hezbollah per l’America latina». E accusato dagli israeliani degli attentati contro l’ambasciata e al centro culturale ebraico di Buenos Aires nei primi anni Novanta.
Le eventuali colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma il dottorando di Genova, che ha ancora la residenza nel capoluogo ligure, dal 2019 al 2021 avrebbe svolto attività di ricerca presso l’Istituto idrografico della Marina militare e l’Istituto di Ingegneria marina del Centro nazionale ricerche. Sviluppando una nuova metodologia scientifica per realizzare ricerche idrografiche tramite sistemi multisensori montati sui droni.
Non è un caso che sia abilitato al pilotaggio di droni commerciali. E avrebbe intestato a suo nome un conto corrente presso l’istituto bancario Qard Al-Hassan, notoriamente legato ad Hezbollah. Sui social ha elogiato alcuni «martiri» di Hezbollah ritratti in mimetica e con il fucile in pugno. Non è stato un problema per continuare gli studi a Genova diventando pure assistente.
Da Harvard a Torino il passo è breve per le prevaricazioni pro Pal. In maggio durante il Salone del libro, pure contestato, si verifica l’episodio più grave al campus Einaudi dell’Università di Torino. L’Unione giovani ebrei d’Italia, gli Studenti per Israele, quelli Liberali e per le Libertà cercano da mesi di organizzare un convegno «contro la violenza e l’antisemitismo nelle università». La direttrice del campus, Anna Mastromarino, boccia subito questa frase contenuta nelle prime locandine. E cancella un primo evento all’ultimo minuto.
Il gruppo studentesco del «Manifesto vogliamo studiare» torna alla carica e ottiene l’autorizzazione per il 15 maggio. «Arriviamo mezz’ora prima per sistemarci e troviamo l’aula già occupata da un centinaio di scatenati con bandiere della Palestina, megafoni, carrelli della spesa pieni di oggetti da tirarci addosso e due docenti intenti a tenere un convegno sulla Nakba (l’esodo forzato dei palestinesi nel 1948, ndr) e il presunto genocidio (a Gaza, ndr)» racconta Cristina Franco, una delle organizzatrici.
Alle 16, quando doveva iniziare il convegno, «la situazione peggiora e aumentano il numero dei manifestanti, il lancio di oggetti, le urla, gli insulti, gli spintoni. Noi sempre chiusi in un angolo senza possibilità di profferire parola». La direttrice chiede alla Polizia di tenersi a distanza e assegna l’aula magna agli studenti del «Manifesto vogliamo studiare». «Ancora peggio: saranno stati 300 e noi 20», spiega Franco. «Raddoppiano sputi, calci, insulti, sberle persino a un anziano nostro accompagnatore».
I proPal li sbattono fuori, dove continuano le aggressioni fino a quando intervengono le forze dell’ordine, ma l’evento è ormai saltato. «Mi sono presa, più volte, in testa l’asta della bandiera della Palestina, insulti e calci», denuncia Franco. «E sicuramente c’è stata saldatura con gruppi di estrema sinistra. Fra i capi manifestazione c’erano rappresentanti di “Cambiare Rotta”, molti in età non universitaria, “Potere al popolo”, collettivi e “Giovani palestinesi”. Studenti? Pochi». I facinorosi hanno dichiarato che «possono e devono usare la violenza contro chi ritengono, a loro insindacabile giudizio, “fascista, sionista e complice del genocidio”».
Il 4 giugno la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, del Pd, lancia l’allarme: «Oggi riuniamo giovani voci ebraiche provenienti da tutta Europa (…) per parlare di qualcosa che ci preoccupa profondamente: l’aumento dell’antisemitismo nelle nostre università». L’iniziativa fa parte del lavoro di un’apposita task force di Strasburgo. «Molti studenti ebrei si sentono isolati e spaventati all’università», sottolinea l’esponente dem, «un luogo che dovrebbe essere aperto, inclusivo e sicuro per tutti».
Dallo scorso anno sono stati denunciati non pochi episodi d’intolleranza. All’Università di Perugia uno studente libanese ha preso di mira un’israeliana, incitando tutti a non sedersi accanto a lei perché ebrea. A Milano hanno sputato addosso a un universitario colpevole di portare al collo la stella di David. In Umbria un’altra studentessa israeliana è stata minacciata, assieme alla famiglia, e insultata come «terrorista». Altri studenti ebrei non portano più la kippah, il copricapo religioso, per timore di venire aggrediti nelle università.
La politologa Sofia Ventura, che insegna all’ateneo di Bologna, ha osservato che «le università oggi sono in qualche modo dominate da un pensiero unico sul tema del conflitto israelo-palestinese». Per non parlare delle minacce «pacifiste». Sbailò, dell’Unint di Roma, rivela che «gruppi di sedicenti pacifisti hanno chiesto le mie dimissioni dal Comitato scientifico della Fondazione Med-Or». L’accusa era di contribuire alla «militarizzazione del sapere» a causa dei legami con il gruppo Leonardo. «Pressioni simili e peggiori sono state esercitate anche in pubblico, su altri colleghi accademici».
Un’altra insidia, evidenziata da Trump, riguarda gli studenti stranieri. «Le università possono essere infiltrate, anche attraverso finanziamenti più o meno mediati», aveva dichiarato il prefetto Mario Parente, riferendosi alla Cina, prima di lasciare la guida dell’Aisi, l’intelligence interna. Negli ultimi cinque anni gli immatricolati stranieri nei nostri atenei sono stati 80.881 (oltre 25 mila solo nel 2024/2025). Nell’ultimo anno le matricole più numerose, provenienti da Paesi extra Ue, sono i 1.753 studenti cinesi. Gli iraniani risultano 1.246, superati solo da marocchini, tunisini e turchi.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, con delega sui servizi segreti ha presentato il «Piano d’azione nazionale per tutelare l’università e la ricerca italiane dalle ingerenze straniere». Il ministero dell’Istruzione ha stilato 11 pagine di linee guida per gli atenei contro le «interferenze esterne indebite». Nell’introduzione la minaccia è chiara: «Per un Paese come l’Italia occorre essere consapevoli che attività di soggetti stranieri (…) nell’ambito della competizione globale e delle tensioni internazionali, possono comportare crescenti criticità per l’integrità e la sicurezza di tale sistema e, in certi casi, alla sicurezza nazionale».