Littoria. Sabaudia. Aprilia. Ma anche Borgo Incoronata, Sferro e moltissimi altri. Sono decine le località che nacquero sulle terre bonificate e colonizzate durante il periodo fascista. Luoghi strappati agli acquitrini e alla malaria, e resi abitabili. Di più: pianificati per essere autosufficienti, per contrastare l’urbanizzazione e andare a sostenere la vita nelle campagne. Passati più o meno novant’anni, e fatta eccezione dei celebri luoghi legati alla bonifica dell’Agro Pontino o alle bellezze connesse al Parco Nazionale del Circeo, che cosa ne rimane? Che cosa resta dei luoghi meno popolari, e certamente più periferici?
Hanno goduto di alterne fortune. In alcuni casi sono stati letteralmente lasciati andare e là dove c’era un pensiero per la popolazione rimangono ruderi. Altre località non hanno mai smesso di funzionare e da paesi sono diventate piccole città. Poi ci sono quei borghi rurali abbandonati che sempre più spesso, in questi giorni, rinascono grazie a iniziative di recupero, tra comunità artistiche, cooperative sociali e giovani agricoltori. Emblematico è il caso di Borgo Incoronata, frazione di Foggia, che ha mantenuto la sua vocazione agricola e oggi con i suoi 650 abitanti – ben lontani dai 6 mila auspicati in tempo fascista – conserva la sua pianta in linea con i canoni del razionalismo architettonico del tempo, e la scritta «Credere Obbedire Combattere» sulla sommità dell’ex casa del Fascio che ne rammenta la nascita. Ridefiniti anche come piccole comunità rurali Borgo Grappa e Borgo Montenero, nel Lazio.
In Sicilia spiccano Borgo Lupo, in provincia di Catania, Borgo Borzellino, in provincia di Palermo, e Borgo Bonsignore nell’Agrigentino, per i quali sono stati stanziati dalla Regione Sicilia circa 14 milioni di euro, utili per il ripristino architettonico e il ripopolamento. Prendiamo Borgo Bonsignore: conta appena 51 residenti, si rianima durante l’estate ma non riesce a raggiungere gli antichi fasti, quando ad affollarne stabilmente le strade erano oltre 600 persone. La speranza è che la sua architettura che racconta la tipica concezione degli anni Trenta – con la piazza centrale dominata dalla Torre del Littorio – possano tornare a splendere come sta accadendo in Sardegna.
Qui è emblematico il caso di Fertilia, frazione del Comune di Alghero, ufficialmente fondata l’8 marzo 1936 durante il periodo fascista con lo scopo di ospitare coloni provenienti principalmente dal Veneto e dal Friuli-Venezia Giulia. Dopo la Seconda guerra mondiale, la borgata accolse anche esuli istriani e dalmati, i cui influssi culturali sono ancora visibili nella toponomastica e nei simboli locali, come il leone alato di San Marco.
«Oggi Fertilia è un grande simbolo di resilienza, nato grazie ad un unico denominatore comune rappresentato dalla povertà e dalla dedizione al lavoro di varie comunità che hanno scelto questo lembo di Sardegna per ricostruire una nuova vita al termine di un lungo viaggio verso l’ignoto», racconta Mauro Manca, direttore dell’Ecomuseo Egea di Fertilia. «La sua storia è lunga. Dapprima, tra il 1935 e il 1939, in questa terra paludosa e malsana arrivano i contadini del Polesine, ferraresi e veneti per le bonifiche volute dal regime fascista, che decide di fondare una nuova città, tutt’ora esempio ben conservato di razionalismo. Poi, ad abitare la nuova cittadina rimasta incompiuta per via della guerra, giunge, a partire dal 1947, un gran numero di famiglie di esuli di Istria, Fiume e Dalmazia, guidati da un giovane prete determinato a creare qui una nuova Pola». A questi si aggiungono gli italiani rimpatriati da Libia, Eritrea, Etiopia, Corsica, Romania e Isola di Rodi.
«Tutti insieme», ricorda Manca, «fanno nascere una comunità unita e perfettamente integrata. Qui uomo e territorio sono cresciuti insieme, dando vita a un esempio che oggi, in un mondo che si divide, rappresentano invece un esempio positivo e virtuoso che con il museo abbiamo voluto raccontare». E avere un luogo così costa, non solo energie dei volontari. «Siamo l’unico Ecomuseo privato che paga l’affitto alla Regione Sardegna. Abbiamo ristrutturato a spese nostre la porzione di un immobile pubblico abbandonato. La verità è che scontiamo la damnatio memoriae dovuta all’origine fascista di questo luogo, e purtroppo siamo costretti a gestire tutto in regime di assoluto volontariato, poiché nessuna Amministrazione pubblica ci ha sostenuto in modo continuativo». In questo modo però rischiano di perdersi anche le tradizioni enogastronomiche che hanno nutrito questa terra, rendendola un mix unico di storia, cultura, economia e territorio.
Un po’ come sta accadendo in Puglia. Il caso più tragicamente emblematico è Borgo Mezzanone. Qui, chi scrive arriva con molte speranze: ci siamo infatti spinti al confine della Puglia – nella provincia di Foggia, poco distante da Manfredonia – con l’ambizione di ritrovare quella forte filosofia che nel 1934 aveva ispirato la fondazione di questo luogo dopo la bonifica condotta dal regime fascista. Un tempo nota come «Borgo La Serpe» – in ricordo del giovane fascista cerignolano Raffaele La Serpe, morto durante il tentativo di occupazione della Camera del lavoro di San Severo -, Borgo Mezzanone vede la sua progettazione affidata nel luglio del 1934 all’architetto Domenico Sandri e all’ingegnere Giovanbattista Canevari, che la dotò di sala riunioni e palestra, scuola, chiesa, bottega e tabaccheria, ma anche di pozzo con serbatoio per la distribuzione dell’acqua potabile, campo sportivo, caserma dei Carabinieri e residenze per coloni.
Durante la Seconda guerra mondiale, l’area ospitò una base aerea utilizzata dagli Stati Uniti, che poi fu gestita dall’Aeronautica militare italiana per addestramento. «Tutto è cambiato nel 2005, quando hanno trasformato questo posto in un Centro di accoglienza per richiedenti asilo» racconta Massimo Trabucchi, che vive poco distante dal Cara. Dove un tempo c’erano campi e silenzio, adesso sorge una baraccopoli costruita con materiali di fortuna che vive in una perpetua emergenza. Un vero e proprio ghetto che ospita migliaia di migranti, principalmente impiegati come braccianti agricoli nelle campagne circostanti.
«Vivono in condizioni precarie, soffrono per servizi igienici carenti, non hanno accesso all’acqua potabile o all’assistenza sanitaria. Si tratta di una zona completamente allo sbando, dove ogni tipo di controllo da parte di polizia e carabinieri sortisce effetti disastrosi», continua l’uomo. Il riferimento è all’intervento di fine maggio della Questura di Foggia che ha sequestrato 11 autovetture, provento di attività illecita.
In compenso proliferano sfruttamento lavorativo e il caporalato, i veri padroni del ghetto davanti alla totale incapacità delle istituzioni di porre fine a questo piccolo inferno, in cui l’abbandono si stratifica da anni come ben precisa Luca Maria Pernice, che in Schiavi d’Italia (Paoline 2024) analizza questa terra di nessuno popolata dal degrado. «Nel 2017 è diventato uno dei ghetti più grandi non solo della Capitanata, ma d’Italia e d’Europa». Un serbatoio di lavoratori a buon mercato. Un bacino di sfruttati deputati a divenire manodopera dal costo irrisorio per governare i 550 mila ettari di terreni agricoli del Tavoliere. Con buona pace – almeno per adesso – di quel che fu.