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Il delitto di Garlasco tra nuovi indizi, ricostruzioni e dubbi: tutte le contraddizioni emerse dopo 18 anni

Il delitto di Garlasco tra nuovi indizi, ricostruzioni e dubbi: tutte le contraddizioni emerse dopo 18 anni

L’alibi vacillante di Sempio, i movimenti in casa Poggi, le impronte, lo scontrino, le telefonate, le dichiarazioni del giudice che assolse Stasi e l’ex maresciallo che voleva indagare sulle gemelle Cappa… Sul delitto di Garlasco torna l’ombra del dubbio

A 18 anni dall’omicidio di Chiara Poggi, nuove tracce e contraddizioni riaprono il caso di Garlasco. Al centro delle indagini, l’amico di Marco Poggi: il suo alibi scricchiola e spuntano impronte mai spiegate.

L’impronta n. 33 e i movimenti in casa Poggi

La cosiddetta impronta 33, trovata sul muro delle scale che portano al seminterrato della casa di via Pascoli, è stata attribuita — grazie a nuove tecnologie — proprio ad Andrea Sempio dai consulenti della Procura, Gianpaolo Iuliano e Nicola Caprioli. È un palmo, privo di sangue, ma sufficiente per riaprire i dubbi sui suoi movimenti all’interno della villetta.

In passato, le testimonianze concordavano sul fatto che Sempio frequentasse solo alcune zone della casa: il salotto al piano terra e la camera di Chiara, dove si trovava il computer. Marco Poggi nel 2007 disse: «Durante le loro visite rimanevamo o nella saletta della tv, al piano terra, o salivamo al primo piano, all’interno della camera da letto di Chiara, per utilizzare il computer», ribadendo nel 2017: «Quando Andrea veniva da me, passavamo il tempo a giocare ai videogiochi, nella saletta giù o sul computer che era in camera di Chiara».

Lo stesso Sempio confermava: «Io all’epoca andavo almeno due o tre volte a casa sua a giocare (…). Passavamo il tempo prevalentemente a giocare ai videogiochi. Giocavamo nel salottino della casa, dove c’era la consolle per giocare con il televisore, oppure sul computer che era posizionato nella camera di Chiara».

Tuttavia, i genitori di Marco in un’intervista del 2017 dichiararono l’opposto: «Non c’è mai entrato, suonava il campanello, Marco usciva e andavano in giro per Garlasco».

Dopo il ritrovamento dell’impronta, la legale di Sempio, Angela Taccia, ha invece sostenuto: «Ha frequentato ogni angolo della casa, tranne la camera da letto dei genitori». La novità dell’impronta numero «33» quindi non sembra cambiare la difesa di Sempio, che ha sempre sostenuto di essere stato «di casa» nella villetta di via Pascoli. «Io sono stato in tutte quelle stanze, tranne la camera dei genitori», la sua posizione espressa ieri ai microfoni di Chi l’ha visto?: «Lì dentro, bene o male, ho toccato di tutto», per questo «non mi stupirei» della presenza di impronte.

Anche il legale della famiglia Poggi, Gian Luigi Tizzoni, ha minimizzato l’importanza della nuova prova: «Non è così decisiva come la vogliono propagandare», aggiungendo che Sempio e Marco «avrebbero percorso svariate volte» quelle scale perché «Marco teneva la Playstation e i videogiochi nella tavernetta».

Ma anche questo dettaglio contrasta con quanto riferito dai Poggi subito dopo l’omicidio. Il 21 e 23 agosto 2007, la console venne descritta nella sala TV, confermata anche dalle foto dei carabinieri.

Altre impronte dimenticate

Oltre alla n. 33, una seconda impronta torna d’attualità: la n. 10, trovata sul portone d’ingresso. Ritenuta all’epoca «di nessuna utilità», oggi è indicata come «comparabile», ma non compatibile né con la famiglia Poggi né con Sempio o Stasi. Sarà analizzata nell’incidente probatorio per la presenza di eventuali tracce genetiche. Secondo una nota dei carabinieri del luglio 2020, se vi fossero state trovate tracce di sangue, quella poteva essere «la traccia dell’uscita dell’assassino dalla villetta». Già nel 2020, una nota interna inviata alla Procura di Pavia segnalava diversi punti controversi nelle indagini e suggeriva approfondimenti mai realizzati.

L’alibi traballante di Andrea Sempio

Il vero nodo resta però l’alibi di Andrea Sempio, che finora era sembrato inattaccabile. Si fondava su uno scontrino del parcheggio a Vigevano, datato proprio alla mattina del delitto. Ma nuove indagini, partendo da celle e tabulati, hanno scoperto che quel biglietto potrebbe riferirsi non a lui, ma alla madre, che quella mattina inviò un messaggio a un vigile del fuoco in servizio a Vigevano.

Il telefono di Sempio, invece, aggancia la cella di Garlasco via S. Lucia tra le 9:58 e le 12:18, come riportato in una relazione della difesa Stasi: «L’utenza di Sempio non risulta agganciata a Vigevano, ma piuttosto attiva la cella di Garlasco via S. Lucia: egli si trovava dunque in località Garlasco».

Il dubbio che lo scontrino fosse un alibi costruito per coprire il figlio inizia a prendere corpo. E la presenza telefonica a Garlasco coincide con la finestra temporale dell’omicidio.

Il giudice che assolse Stasi: «Trovai molto curioso lo scontrino di Sempio»

A dare ulteriore peso alle attuali indagini è anche la voce di Stefano Vitelli, il giudice che assolse Alberto Stasi in primo grado. In un’intervista a La Stampa, torna sullo scontrino di Sempio: «Trovai molto curioso lo scontrino, ma nessuno accese un faro…».

Vitelli, che nel suo dispositivo parlava di “quadro istruttorio contraddittorio e altamente insufficiente”, aggiunge: «Più approfondivo la cosa più qualcosa sfuggiva, aleggiava – e ha aleggiato fino alla fine – un’ombra di mistero, di incompiutezza».

Il giudice ricorda anche il famoso “alibi informatico” di Stasi, inizialmente inverificabile a causa di errori dei carabinieri. Solo una perizia successiva riuscì a confermare che: «Stasi lavorava al computer quella mattina. Non aveva mentito. Aveva detto la verità. E cioè che lui quella mattina e in orari chiave aveva lavorato alla tesi con sostanziale continuità e impegno intellettuale».

Sempio, invece, all’epoca non fu mai realmente al centro dell’inchiesta. «C’era una strana paginetta di cinque righe. Si parlava di uno scontrino», ricorda Vitelli. «Ma il mio compito era rispondere a un quesito: Alberto Stasi è innocente o colpevole? Cercare una terza via per il giudice è compito abnorme e improprio: deve essere terzo».

L’ex maresciallo Marchetto: «Volevo indagare sulle gemelle Cappa, ma mi fermarono»

Nel vortice di riaperture e nuove piste, torna a parlare anche Francesco Marchetto, ex maresciallo dei carabinieri, una delle prime figure presenti sulla scena del crimine nella villetta di via Pascoli. Estromesso dalle indagini appena dieci giorni dopo il delitto, fu successivamente accusato di aver favorito Alberto Stasi per non aver sequestrato una bicicletta nera da donna, simile a quella indicata da una testimone e appartenente alla famiglia del giovane poi condannato. Il procedimento a suo carico si è concluso con la prescrizione del reato, ma non senza conseguenze: Marchetto è stato condannato a risarcire la famiglia Poggi con 40.000 euro.

Oggi, in pensione, è tornato a commentare gli sviluppi del caso nel corso di una puntata de La Vita in Diretta, affermando: «Finalmente stanno facendo quello che ho sempre sostenuto dal 2007».

Marchetto ricorda bene quel 13 agosto, quando fu tra i primi ad accedere alla casa di Chiara Poggi. Un ingresso che, a suo dire, si svolse in un clima di confusione e disorganizzazione: «La prima cosa che mi ha colpito è stato il gran casino. C’erano troppe persone all’interno di quella casa. A cosa è servito? Gli accertamenti sono stati resi difficoltosi. Dove c’è casino, non c’è chiarezza. C’erano tanti carabinieri che non avrebbero dovuto esserci».

La sua esclusione dalle indagini, racconta, arrivò proprio quando cercò di ampliare il raggio dell’inchiesta oltre la figura di Stasi: «Volevo fare le indagini a 360 gradi. Quando ho alzato il dito per dire di guardare anche da un’altra parte (che non fosse la colpevolezza di Stasi, ndr) sono stato esautorato. A un certo punto dell’indagine, se avessimo messo su una bilancia Stasi o altre persone, l’ago sarebbe andato verso queste ultime, che non sono state attenzionate».

Oggi, sulle nuove piste seguite dalla Procura di Pavia, è netto: «Le nuove indagini daranno finalmente il nome al colpevole del delitto di Garlasco. Stasi non c’entra niente».

Tra le piste mai davvero approfondite, secondo Marchetto, c’era anche quella legata alle gemelle Cappa, vicine di casa dei Poggi. A Repubblica ha spiegato: «C’era il testimone che smentiva i movimenti della loro madre, quella mattina. E Muschitta che descrisse Stefania in bici con troppi dettagli per mentire. Bisognava entrare in casa loro, bisognava indagare a 360 gradi».

Ma, ricorda, le sue intenzioni furono bloccate: «Il capitano Cassese disse: tengono l’alibi. Ma chi lo ha mai verificato?».


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