Tre giorni dopo il referendum controverso che sancì la vittoria della Repubblica sulla Monarchia, il 2 giugno del 1946, Umberto II di Savoia, re uscente e mai più rientrato, fece depositare dal ministro della Real Casa Falcone Lucifero i gioielli della Famiglia Reale a Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia. Era un cofanetto in pelle nera, a tre strati, foderato di velluto blu, come il sangue dei nobili, che tuttora custodisce oltre seimila brillanti e duemila perle, varie gemme, diademi, bracciali, collane, spille, orecchini. Alcuni risalgono all’epoca del Regno d’Italia, altri sono precedenti, cimeli di Casa Savoia nei secoli.
Sono passati quasi ottant’anni ma i gioielli dei Savoia restano ancora nel limbo, inaccessibili agli eredi ma nemmeno confiscati dallo Stato italiano. L’ultimo tentativo di riaverli risale a tre anni fa, non c’era ancora la Meloni al governo e c’era ancora in vita Vittorio Emanuele IV, affiancato dalle tre sorelle, le Tre Marie – le principesse Maria Pia, Maria Gabriella e Maria Beatrice: intentarono una causa alla Banca d’Italia, alla presidenza del consiglio e al ministero dell’Economia per riavere i gioielli di Casa ma senza riuscirvi.
Nella famosa tredicesima disposizione in appendice alla Costituzione, fu indicato che i beni della Casa Savoia fossero avocati allo Stato repubblicano. Ma i gioielli si possono considerare alla stessa stregua dei palazzi, delle tenute, delle collezioni confiscate alla casa regnante o rientrano in beni che hanno più una valenza personale, familiare, comunque più attinente alla sfera di pertinenza della dinastia? Un’attenta ricostruzione della vicenda l’ha fatta Fabio Andriola sulla sua rivista Storia in rete, appena rilanciata in edicola. Quando Umberto II consegnò, pare su sollecitazione di Alcide De Gasperi, i tesori della Corona li accompagnò con una lettera volutamente sibillina: «In conseguenza degli ultimi avvenimenti desidero che le Gioie della Corona non vadano immediatamente in mano a un commissario che potrebbe prendere dei provvedimenti affrettati e magari fare una distribuzione e un’assegnazione non conforme al valore storico. Sono gioie portate dalle regine e dalle principesse di Casa Savoia. Desidero siano depositate presso la Banca d’Italia per essere consegnate poi a chi di diritto».
Già, chi ha veramente diritto? Il paradosso, nota Andriola, è che a difendere la causa dei Savoia fu il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, monarchico come il suo predecessore, Enrico de Nicola (uno dei paradossi della nostra Repubblica: ebbe i primi due presidenti monarchici…). Einaudi usò una formula prudenziale «potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale». Ai Savoia risposero invece con un secco no due governatori della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, divenuto poi anch’egli capo dello Stato, e Mario Draghi. Fu perfino negata la richiesta di fotografare i gioielli di Casa Savoia, da parte di Maria Gabriella per farne un libro. Peraltro, il tesoro fu fatto valutare da due gioiellieri famosi, Gianni Bulgari e Roberto Vespasiani, e il loro responso tecnico svalutò i gioielli per la loro foggia antiquata; ma il valore storico, antiquario e simbolico resta intatto. L’arco su cui sembrano attestarsi le valutazioni è molto largo: dai 30 ai 300 milioni di euro.
Il tempo è galantuomo, e dopo 56 anni di esilio fu ammesso il rientro dei Savoia maschi in Italia, interdetto in quelle norme non a caso definite transitorie. L’amara sorpresa per chi aveva per decenni perorato la causa del rientro dei Savoia in Italia, fu che quando venne concessa la possibilità, Vittorio Emanuele IV e la sua famiglia restarono residenti in Svizzera, a Ginevra, e d’estate in Corsica, isola di Cavallo; ebbero il diritto di rientrare ma lo fecero solo da turisti occasionali, per eventi o in barca. Ora l’erede Emanuele Filiberto ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo ed estenderà la richiesta di riavere anche alcuni immobili. Non abbiamo competenza giuridica per entrare nel merito della controversia; ma è evidente che si tratta ormai di un contenzioso che investe una mera questione privata e patrimoniale, se non venale: l’erede vorrebbe usufruire dei beni della sua casata sostenendo che appunto appartengano alla famiglia e non al Regno poi tramutato in Repubblica.
Forse l’unica soluzione di buon senso, prima ancora che giuridica, sarebbe salomonica: distinguere tra beni che restano allo Stato e beni che tornano alla famiglia Savoia. O con un’ulteriore mediazione, disponendo che siano esposti e custoditi in qualche luogo a perenne memoria di una storia e di una dinastia che in fondo regnò sull’Italia in un arco di tempo piuttosto breve, pari alla vita di un uomo: ottantasei anni. Una volta notai che mio nonno, classe 1859, era nato sotto i Borbone, prima che nascesse lo Stato Unitario sotto la Corona dei Savoia. Se fosse morto a ottantasette anni, dopo il fatidico 2 giugno del 1946, avremmo potuto dire che non era nato né morto sotto i Savoia. E questo rende bene l’idea che transitorie non furono solo le norme applicate ai Savoia (e al regime fascista) ma transitorio fu quel regno, soprattutto se paragonato a quello più longevo degli Asburgo a Nord, dei Borboni al Sud, e di altre dinastie in altre città d’Italia. Una Monarchia passeggera anche se in quell’arco così breve, avemmo il Risorgimento e l’Unità d’Italia, le guerre coloniali, il regime fascista, l’Impero, due guerre mondiali. Regno breve ma intenso.