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Il corpo senza pace di Mussolini

Il corpo senza pace di Mussolini

Nel 1946 la salma di quello che era stato il duce fu trafugata a Milano da nostalgici del fascismo e cominciò un’odissea di oltre un decennio. In un’Italia che stava cercando di uscire dalla tragedia bellica, quella sparizione era il passato che non passa. Un libro ne ricostruisce la vicenda.

In un primo tempo, immaginarono di «rapire» il cadavere di Mussolini – il 28 aprile 1946 – nel giorno del primo anniversario della fucilazione del duce del fascismo.  Ma alcune indiscrezioni (peraltro solo immaginate) su provvedimenti più rigorosi per i turni di guardia al cimitero milanese dov’era tumulato, consigliarono di anticipare il «colpo» nelle ore a cavallo fra il 22 e il 23 aprile. Il piano d’azione era tutt’altro che irresistibile. Riuscì perché era esplosa una rivolta nel carcere di San Vittore, con il risultato che gli agenti di guardia alla sepoltura vennero dirottati sotto la prigione. Quattro picconate nella terra di nessuno riaccesero l’attenzione su pagine di storia ancora potentemente attuali. L’odissea di un cadavere cominciò nel buio di quella notte e durò quattromila giorni prima che – 9 agosto 1957 – fosse consegnato alla famiglia a Predappio dove Mussolini era nato e dove aveva auspicato di voler tornare da morto.

Il percorso – accidentato – di questo «cadavere errante» viene proposto da Ugo Savoia in un testo che, inevitabilmente intitolato Il corpo di Mussolini (Neri Pozza), coglie gli umori e le angosce di un Dopoguerra agitato e ne delinea le contraddizioni. Il cadavere venne nascosto nel cimitero di Musocco, alla periferia nord-ovest di Milano. Non una croce e nessuna indicazione. Quella zona era servita per tumulare alcuni tedeschi morti nei mesi addietro. Alla fine di aprile 1945, ci portarono 11 cadaveri: Mussolini e Claretta Petacci uccisi – secondo la versione dei partigiani – a Giulino di Mezzegra, otto gerarchi fucilati a Dongo, oltre ad Achille Starace, catturato mentre correva in tuta da ginnastica e, in un amen, portato davanti al plotone di esecuzione. Il luogo della sepoltura del duce – ufficialmente – non esisteva. Le autorità temevano che una tomba scopertamente indicata potesse diventare meta di pellegrinaggi inopportuni. I nostalgici, certo, alla ricerca di un rigurgito di passione ma anche i nemici, animati dal desiderio di sfogare un malanimo covato o, peggio, i curiosi – che non mancano mai – illusi di far parte di contesti più grandi di loro.

L’idea di trafugare la salma venne a Domenico Leccisi che, essendo nato nel 1920, non fu un fascista della prima ora ma, quando gli fu anagraficamente possibile, indossò la camicia nera con l’euforia sproporzionata dell’incoscienza. E anche dopo la caduta del Regime, non cambiò idea, fondando un Partito democratico fascista. Il «rapimento» fu influenzato da due motivazioni. Una – morale –  consisteva nel desiderio di assicurare una «sepoltura onorevole» a Mussolini. L’altra – più politica – si proponeva di difendere gli ex fascisti emarginati nelle zone grigie delle città. «Rubare» il cadavere per attirare l’attenzione poteva essere un’iniziativa efficace ma – esattamente – dov’era la fossa con Mussolini? Leccisi, in una pubblicazione autobiografica pubblicata cinquant’anni dopo, confessò che la «soffiata» venne da un soldato altoatesino che lavorava al cimitero. La salma del duce si trovava nella tomba numero 384 del campo 16. Operazione macabra quella di scavare fino a sentire il solido della bara, fare leva per scoperchiarla e illuminare il cadavere con una torcia di acetilene. La brezza della notte non fu sufficiente per placare l’odore di rancido che usciva dalla cassa.

Il corpo era nudo, tumefatto dal furore di piazzale Loreto e dall’autopsia sommaria praticata successivamente. I pantaloni che indossava erano stati buttati sopra il cadavere. Del commando, oltre a Leccisi, fecero parte Mauro Rana e Antonio Parozzi. Dovettero vincere il ribrezzo quando avvolsero la salma in un telo. Per saltare lo steccato di protezione, scivolarono. Uno si distorse la caviglia e l’altro si escoriò un ginocchio. Il cadavere, già in precario stato di conservazione, perse tre falangi di una mano.  Che l’azione avesse margini di improvvisazione è dimostrato dal fatto che, dopo il furto, i tre non sapevano dove andare. Scelsero Madesimo dove la provincia di Sondrio è già quasi Svizzera perché uno dei tre aveva una baita in affitto. Il cadavere finì in un baule che, dopo quattro ore di lavoro, fu sistemato in fondo alla legnaia. L’effetto della scomparsa fu dirompente e, in assenza di certezze, galoppò l’immaginazione. La tesi più inverosimile riguardò un testimone che riferì di aver incontrato il duce – vivo – a Ceylon. Ma non mancarono di originalità nemmeno le dichiarazioni di chi vide il fagotto con il cadavere in barca sul Po, in una mongolfiera sopra le Alpi, su un aereo spagnolo o in un’urna che conteneva le ceneri ottenute dopo la cremazione. Interpellarono anche un veggente – Ciriaco Manenti – che, di lavoro, faceva il doganiere ma, per vocazione, coltivava lo studio della «radiobiofisica». In effetti, dopo aver «spinto» le cellule a combaciarsi, «vide distintamente» il cadavere mentre veniva trafugato ma, per colpa di interferenze cosmiche successive, non riuscì a seguirlo sulla via di fuga…

L’Italia stava faticosamente recuperando una dimensione di normalità dopo la guerra. Che fosse possibile ricostruire sulle macerie venne dimostrato dall’ingegner Corradino D’Ascanio che riciclò i motori di avviamento degli aerei militari per trasformarli in motociclette. Nacque la «Vespa». Che non serviva per i bombardamenti, ma era utile per la gente comune che poteva spostarsi più agevolmente. Fausto Coppi era l’eroe in bicicletta e i «granata» del Torino (nel 1946) vinsero il loro terzo scudetto. Era la politica a dimenarsi nell’inquietudine. Ferruccio Parri, fu presidente del Consiglio dei ministri solo per 172 giorni, poi dovette fare le valigie e lasciare il posto ad Alcide De Gasperi. Gli Interni furono affidati ad Attilio Romita, alle prese con l’organizzazione del referendum tra monarchia e repubblica. 

Alla Giustizia, Palmiro Togliatti aveva da fare i conti con i comunisti del suo partito che pensavano di aver acquisito il diritto a governare vincendo le elezioni ma anche senza.

Comprensibile che il furto del cadavere di Mussolini avesse acceso i sentimenti appena sopiti (di qualcuno) e infiammato quelli (di altri) già abbastanza infuocati. Anche perché Leccisi, a nome dei «fascisti democratici», si rivolse ai giornali offrendo la restituzione del cadavere  in cambio di un’amnistia che riguardasse le ex camicie nere. Impossibile, mettendosi così in evidenza, non lasciare tracce. Gli inquirenti strinsero all’angolo il commando di ladri che si trovarono costretti a traslocare le spoglie. Si rivolsero ai frati dell’Angelicum di Milano Alberto Parini ed Enrico Zucca che «per carità cristiana» accettarono di custodire lo scomodo ingombro.  Ci vollero due sacchi gommati per ricoverare i resti di Mussolini ma, soprattutto, per contenerne il tanfo di morte che ne usciva. Lo nascosero sotto una botola, davanti all’altare di San Matteo.

Presto, però, anche quel rifugio si fece precario. Gli inquirenti arrivarono a Giorgio Muggiani che non aveva partecipato all’azione ma ne conosceva i dettagli e indicò i nomi dei responsabili che vennero arrestati. Paradossalmente, in carcere, realizzarono gli obiettivi che si erano proposti. Il 22 giugno 1946, Togliatti promulgò l’amnistia che era la richiesta non negoziabile dei camerati democratici. E, anche se servirono undici anni, Leccisi fu determinante per la restituzione del cadavere di Mussolini alla famiglia.

Nel maggio 1957, una delle tante crisi di governo portò alle dimissioni il presidente del consiglio Antonio Segni. A succedergli, fu indicato Adone Zoli che poteva contare su una maggioranza risicata all’osso. Anzi, per il voto di fiducia gli mancava un voto che arrivò da Leccisi che era stato eletto alla Camera dei deputati nelle liste del Movimento sociale italiano ma senza fare parte del gruppo parlamentare. Il fatto che fosse formalmente un «indipendente» lasciò a lui un margine importante di azione autonoma e tolse la Democrazia cristiana dall’impaccio di accettare voti da quelli che venivano giudicati «eredi» del fascismo.  Leccisi votò Zoli e questi ricambiò togliendo l’embargo sul corpo di Mussolini. Il duce, nel frattempo, stava in una valigia e, questa volta, con il consenso del governo, finì alla Certosa di Pavia. Restava il problema di non trasformare il tiranno morto in un oggetto di culto. Pretesero che il priore s’impegnasse a mantenere assoluta segretezza. E silenzio ci fu, fino al momento di consegnare il feretro alla moglie Rachele per una sepoltura vera. Il marketing della nostalgia si era affievolito. Anche se non del tutto.

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